Sono avvocata. Sì, avvocata, con due A: una all'inizio e una alla fine.
Sono sgrammaticata? Sono provocatoria? Sono narcisista? Sono femminista? Direi che semplicemente Sono e nel mio essere è racchiuso ciò che mi qualifica anche sul piano lavorativo come colei che esercita la professione forense.

O cielo! Adesso - penserà la lettrice o il lettore - ci toccherà assistere al solito discorso sull'uso della lingua e sulla formazione dei femminili professionali. “Avvocata”, “ministra”, “sindaca”, “ingegnera”, “architetta” e compagnia bella. Come se non ci fosse ben altro a cui pensare! Come se i problemi delle donne fossero tutti qui! E poi questi termini sono dei neologismi, sono cacofonici, insomma, suonano proprio male! 
Quante volte mi sono imbattuta in questi discorsi, avendo sempre la percezione che il discorso che ne seguiva avesse bisogno di spazio, di tempo, di ascolto.

Perché il problema non sta nella grammatica, ma nella stratificazione di consuetudini, di pregiudizi, finanche di discriminazioni sessiste da cui il pensiero, che la lingua traduce, è più o meno consapevolmente afflitto. 
E dunque tutti/e coloro che sono restii o diffidenti nell'uso delle cosiddette “parole che suonano male” sarebbero sessisti? No, o non necessariamente. Alcuni/e sono semplicemente abitudinari/e e faticano a rappresentare, anche nel parlato, un contesto socio culturale in evoluzione.

In settori lavorativi e professionali storicamente riservati al genere maschile, la lingua non aveva necessità di nominare ciò che non esisteva, ciò che non era neppure immaginabile. Ma oggi che, ad esempio, il mondo del diritto (salvo che nelle posizioni apicali) si è prevalentemente femminilizzato, non rivolgersi a “colei che svolge la professione forense” come avvocata o “a colei che esercita la funzione giurisdizionale o inquirente” come magistrata significa scegliere di non voler incrociare la questione linguistica con il mutevole dato culturale, lavorativo, professionale.

Mi è capitato di affrontare la questione con colleghe che - prendendo spunto dalla grafica del  mio biglietto da visita o della mia carta intestata, su cui è impressa la qualifica di Avvocata, o dalla declinazione al femminile dei miei atti, quando intestati ad autorità giudiziarie femminili - dichiarano di avvertire questi dettagli come delle forzature o, in alcuni casi, di sentirsi addirittura squalificate dall'uso del femminile.
“Preferisco essere chiamata avvocato, avvocata è proprio brutto”, “Ho faticato molto per raggiungere questo titolo e ora mi faccio chiamare avvocato”, quasi che il titolo professionale maschile avesse maggiore incisività ed autorevolezza rispetto a quello femminile.

Ebbene, lontana da me l'idea di giudicare chi decide di continuare a chiamare, chiamarsi e farsi chiamare “avvocato”, benché con riferimento ad una donna, ma credo che questo racconti molto, specie nella prospettiva femminile, di come ci si percepisca ancora oggi in questo specifico (ma non solo) ambito professionale.

Mi è capitato anche di discutere, ed animatamente, con amici maschi alcuni dei quali si dichiarano per nulla interessati alla questione, reputandolo “un non-problema”, altri – più audaci, lambito il tema delle carriere e dei soffitti di cristallo – si proclamano paladini della uguaglianza formale che suggellano con espressioni quali “non mi interessa che sia maschio o femmina, basta che sia capace, il genere non conta”.
Il fatto è che tanto gli uni quanto gli altri forse faticano a capire le motivazioni più profonde che stanno alle radici della questione linguistica perché non vivono né hanno mai potuto vivere l'esperienza dell'essere qualificati al femminile pur essendo maschi.

L'esperimento del docente che entrando in una classe interamente femminile, ad eccezione di una componente maschile, si rivolga dicendo “buongiorno a tutte” (con ciò usando un femminile inclusivo) non suscita le stesse reazioni - di sbigottimento e finanche di fastidio - allorquando, entrando in una classe interamente maschile, ad eccezione di una componente femminile, esordisca con un bel “buongiorno a tutti”.
Forse perché noi donne siamo abituate a subire l'uso del maschile cosiddetto neutro mentre gli uomini respingono l'uso inclusivo del femminile?

Se la questione di genere in ambito lavorativo e professionale non rileva, se i ruoli e le cariche sono neutri, non dovremmo neppure distinguere tra infermiere e infermiera, tra maestro e maestra, tra operaio e operaia, tra macellaio e macellaia, tra fruttivendolo e fruttivendola e via discorrendo.

Eppure nessuno penserebbe di rivolgersi all'insegnante (donna) dei propri figli appellandola “maestro” perché “maestra” suona male. E ancora, difficilmente qualcuno/a penserebbe che dietro all'impiego della parola “cuoca” si nasconda una ideologia, una rivendicazione di stampo femminista. 
Nominare una donna che lavora attraverso la corretta declinazione linguistica di genere del ruolo che ricopre contribuisce non solo ad aumentarne la visibilità in campo lavorativo/professionale ma anche a renderne abituale la presenza perché la lingua nomina ciò che esiste, ciò che è pensabile.

E, dunque, avvocata o avvocato?
Personalmente continuerò a valorizzare il mio, come gli altri femminili professionali, senza per questo entrare in rotta di collisione con chi, soprattutto donne, preferisca fare diversamente, conscia che alla parità fra i generi possiamo approdare imboccando percorsi diversi.