L’inclusione passa attraverso la contaminazione

Parlare di “contaminazione” in questo momento storico rischia di sembrare un azzardo o, peggio ancora, una forma di mancanza di rispetto di fronte a tutto quello che è accaduto. Naturalmente esiste un’accezione molto peculiare del termine: quando parliamo di contaminazione ci riferiamo al valore e all’opportunità di arricchire il nostro repertorio di conoscenze (sapere), competenze (saper fare) e di attitudini (sapere essere) attraverso il contatto con mondi disciplinari e con persone anche molto molto distanti dalla nostra formazione.
 
Nel corso delle nostre vite abbiamo via via imparato e imparato a fare molte cose ma poi scuola, università e organizzazioni (profit e non) ci hanno indotto a specializzarci sempre di più sospinti dall’obiettivo di essere più abili di altri nel nostro “mestiere”.
 
Che si sia panettieri, avvocati, fabbri, medici, sarti, social media manager ecc, abbiamo molto probabilmente perseguito la strada della iper specializzazione convinti che fosse la risposta più adatta ad un contesto sempre più esigente e competitivo.
 
E se questa non fosse la strada giusta?
 
Esistono almeno due ragioni per pensarlo.

La prima ragione

risiede nella complessità dei problemi che affrontiamo e qui al termine complessità attribuiamo un significato molto preciso: sono complessi quei problemi che non hanno una soluzione ottimale ma che richiedono un’attenta analisi preliminare, un certo numero di tentativi e soprattutto, tutte le volte che si ripresentano, una soluzione diversa. Un esempio? Vincere una partita di shangai, il gioco orientale con i bastoncini di colori diversi da sfilare via via dal mucchio senza far muovere gli altri. Ogni partita di shangai è diversa dall’altra, serve osservare per analizzare, procedere per tentativi e non replicare le mosse precedenti semplicemente perché hanno già funzionato perché potrebbero non funzionare.
Maggiore è il nostro spettro di abilità, esperienze e competenze, maggiore sarà la nostra probabilità di risolvere questo tipo di problemi.

La seconda ragione

riguarda la cosiddetta intelligenza artificiale e più in generale il meccanismo dell’algoritmo che governa i robot.
Questi ultimi diventeranno via via e soprattutto in tempi rapidissimi (talvolta anche frazioni di secondo) più bravi di noi nel risolvere i problemi. Problemi però di natura un po’ diversa, ovvero i cosiddetti problemi complicati. Un esempio? Il cubo di Rubik. Alcuni essere umani sono abilissimi, ma le macchine sono certamente più efficaci e veloci.

Mettiamo assieme i pezzi


Le macchine ci battono nei problemi complicati, ovvero quelli che si risolvono con gli algoritmi e la iperspecializzazione. La realtà però ci espone sempre più spesso a problemi complessi perché tutto e sempre più interconnesso, veloce e imprevedibile.
 
Ora forse si capisce perché noi esseri umani dovremmo perseguire un’altra strada ovvero quella della contaminazione dei nostri saperi. Siamo ingegneri? Frequentiamo più spesso gli artisti e appassioniamoci all’arte perché ciò arricchirà la nostra prospettiva e ci renderà più abili e creativi nella risoluzione dei problemi e, più in generale, nell’affrontare la vita contemporanea.
 
Ora forse si capisce perché, nonostante tutto, la contaminazione può essere una cosa bella. Giulio Xhaet, consulente, formatore e digital strategist di Newton S.p.A. ha coniato questa bellissima espressione e l’ha raccontata in un libro che si chiama proprio così: #Contaminati.
 
Aggiungo io una cosa: contaminarsi significa anche includere chi è “diverso” da noi perché fa cose diverse. E la diversità è ricchezza e valore.