Il tormentone congiunti di questi giorni mi ha fatto scattare il collegamento mentale con l’istituto del ricongiungimento famigliare di stranieri. Detto così so che non sembra una così brillante intuizione, ma ve ne parlo lo stesso perché Roma wasn’t built in a day. Lo sforzo collettivo che stiamo facendo dall’ultima conferenza stampa del presidente del consiglio è capire chi possa ricongiungersi con chi.

Qualche giorno fa il mio compagno si è presentato a casa con uno schema in cui aveva calcolato il grado di parentela con il suo amico Lollo, con il quale ha in comune una vecchia zia. Il risultato è stato che Lollo avrebbe potuto vedere suo padre e non lui (il padre infatti era il sesto nel grado di parentela).
Superata la delusione della scoperta e scongiurati i tentativi di creare delle catene di congiunti per cui alla fine avremmo rischiato di incontrare il Trota che aveva una nonna nello stesso paese della mia, ho pensato che in fondo in questa situazione stiamo cercando un modo per soddisfare l’esigenza di vedere una persona che non incontriamo fisicamente da circa un paio di mesi. È un sentimento perfettamente comprensibile e condiviso. Però quel che succede è che c'è una norma che comprime un nostro diritto, in questo caso il diritto di spostamento e di aggregazione. E tutti stiamo discutendo della sua opportunità e del suo impatto sulle nostre vite.

Ci sono limitazioni che ci sembrano particolarmente detestabili, forse perché, come in questo caso, incidono su una sfera così personale ed emotiva come è quella dei legami famigliari e privati. Tornando quindi al ricongiungimento famigliare, ho iniziato a riflettere su tutte le volte in cui mi sono trovata a fare quello stesso schema allo sportello stranieri per contare il grado di parentela tra un cittadino italiano (naturalizzato e con cittadinanza acquisita) e la persona straniera che voleva ricongiungere. E a quante volte è successa la stessa cosa che è successa al mio fidanzato con il suo amico. Ma mai avevo pensato quanto questo fosse poco digeribile e doloroso.

Questa storia non ha una morale perché moralizzare è per fino meno digeribile di non vedere la mamma, ma serve solo per ricordarci che a volte essere nei panni di qualcuno aiuta a capire o almeno a non giudicare. E lo so che è banale come l’inizio. Ma questa volta nei panni di chi prova a ricongiungersi con un suo caro, ci siamo finiti tutti. Pensiamoci.