C’è una ragazza che guida a tutta velocità per le strade di Marghera, una che lavora in un grande magazzino nel centro di Milano, un’altra che ad Haiti ripercorre la storia della sua famiglia, un’altra ancora che, nata in Burkina Faso, in Italia ha scoperto di avere la pelle nera. Sono solo alcune delle storie di Future, la “prima raccolta di racconti di donne afroitaliane”, curata dalla scrittrice e giornalista somaloitaliana Igiaba Scego per una piccola e combattiva casa editrice fiorentina, effequ.
Quello di Scego ed effequ è un lavoro importante, che vuole colmare un vuoto e che fa sorgere spontanea una domanda: ma dov’erano finite, negli ultimi decenni, le voci migranti, le voci di seconda generazione che si erano imposte sul mercato negli anni Novanta e Duemila? Che cosa è successo in questi vent’anni? Quella che risulta, guardando ai cataloghi, è una mancanza di attenzione di molte case editrici, che non hanno saputo incanalare le energie che hanno continuato a sprigionarsi sui blog e sui social network e in cui si è fatta le ossa, lontano dai riflettori, una nuova generazione di attiviste e narratrici.
Si parla al femminile, perché Future non si limita a riportare il discorso sulla migrazione e la diaspora là dove si era interrotto, ma fa un passo avanti, affidando l’antologia unicamente a voci di donne. La complessità diasporica, quindi, si intreccia a quella di genere (come spesso la cronaca non manca di ricordarci). Per Igiaba Scego, che ho contattato al telefono per farmi raccontare il “dietro le quinte” della raccolta, era fondamentale che l’afrodiscendenza si legasse alla prospettiva femminile.
Background e storie differenti si intrecciano in un mosaico di vissuti che partono da un passato a volte condiviso a volte no, per muoversi insieme in una direzione unitaria: l’immagine – o l’immaginazione – di un futuro che, per dirla con le parole di Scego, “si innerva di presente”. Partendo da un paese, l’Italia, che ha rimosso le sue colpe coloniali e che fatica a integrare nel discorso politico e sociale una multiculturalità che, invece, ne è parte costitutiva e fondamentale, sia per storia antica e recente, sia per posizione geografica.
Ma entriamo nel merito della raccolta, perché tanto c’è da dire, a partire dal profilo delle sue autrici: undici (più una prefazione e una postfazione affidate a una ricercatrice e a una docente universitarie, Camilla Hawthorne e Prisca Agustoni). Le scrittrici di Future sono dunque studentesse o lavoratrici, o magari entrambe le cose, che non hanno ancora compiuto trent’anni, come Ndack Mbaye e Esperance H. Ripanti, o che hanno superato i quaranta, come Angelica Pesarini, nate in Italia o arrivate qui in momenti diversi della vita, tutte con esperienza nella scrittura, alcune con già pubblicazioni all’attivo, altre completamente esordienti: è il mosaico di vissuti e storie di cui si parlava. Insomma, Scego è riuscita, senza “provini”, senza testi da mettere al vaglio prima della selezione, a intercettare quello che si stava muovendo nella società.
Lo stesso dinamico pluralismo si trova nei testi di queste autrici: si passa dalla fiction alla non fiction, dalla distopia all’autobiografismo (e quanto spesso distopia e autobiografismo coincidono!).
Sono presenti, in ogni caso, diversi fil rouge che rendono unitario il messaggio. Sicuramente uno di questi è la ricerca identitaria che segue lo sdoppiamento (e che si percepisce già dalla bella copertina di Chiara De Marco) tra il qui, in cui le protagoniste dei racconti vivono, e il lì, da cui proviene il loro passato famigliare.
Prisca Agustoni nella postfazione scrive:
“sia i temi affrontati, sia gli approcci letterari e simbolici scelti dalle autrici per affrontarli sembrano indicare una dualità o una ‘doppia coscienza’ che è alla radice della storia di migrazione personale, storica, linguistica, semiotica, religiosa di molte di queste scrittrici”.
Un bell’esempio di questa dualità è espresso nel racconto Il mio nome di Djarah Kan, che racconta la vicenda di Lisbeth, una ragazza che scopre di non avere il “nome degli antenati” e a cui questa consapevolezza inaspettata provoca un’ulteriore lacerazione tra il suo presente italiano e le radici ghanesi della sua famiglia.
Nei testi di Future ci sono i viaggi, ci sono le famiglie allargate, e poi c’è un altro aspetto forte, fortissimo: quello della corporeità. Scego, nella nostra chiacchierata telefonica, me lo conferma: “in quasi tutti i testi c’è il filo della vulnerabilità del corpo nero nelle società europee. Di quanto il corpo nero è in pericolo, soprattutto quello della donna”. Ed è una prospettiva importante, perché “il pericolo che corre il corpo nero femminile, rispetto a quello maschile, è meno narrato”.
Quando ho chiesto a Igiaba Scego se ci fosse un racconto che trova paradigmatico dell’antologia mi ha risposto senza tentennamenti Nassan Tenga di Leaticia Ouedraogo, che effettivamente riesce a racchiudere tutti i temi di cui si è parlato. La diaspora, la difficoltà di immaginare un futuro quando si è schiacciati in un eterno presente, i ricordi dei genitori in Burkina Faso che si scontrano con il trauma della precarietà italiana, il razzismo che permea la quotidianità, l’incapacità delle scuole di comprendere l’esperienza migrante, le discriminazioni, le incomprensioni tra generazioni e, poi, la rivolta, culturale e generazionale, di cui l’autrice fa parte.
D’altronde Igiaba Scego lo scrive già nell’introduzione: Future è un j’accuse contro l’Italia distopica in cui viviamo, un j’accuse innervato da un’idea di futuro forte e combattiva. Come scrive Ouedraogo: “l’identità collettiva è aleatoria, complessa e sempre soggetta a nuove rielaborazioni. […] E non ci affanniamo più alla ricerca di modelli, perché a suon di fatiche e sconfitte, stiamo diventando noi stessi i nostri modelli. E lo stiamo facendo in una maniera bellissima. Il tipo di bellezza che fa venire le vertigini”.
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