Habibi... mio amato... di Craig Thompson



5 motivi per cui Habibi è Promise
 


Habibi è una storia d’amore che è ricerca di una appartenenza che conosce l'abbandono, la lontananza. È un amore che nasce da un gesto di pietas e dal bisogno di non sentirsi soli e che finisce per diventare l’unica ragione di sopravvivenza.



Habibi è una storia di dolore e di violenza al cospetto della meschinità umana. Di povertà e di miseria, quella che contorce pance vuote e deforma i volti. È una storia vecchia, consumata dal logorio degli anni che passano, ma che ogni giorno si ripete e si rinnova in una donna che nasce schiava, poco importa se di una società o di un uomo.



Habibi è una storia disegnata con un tratto nero e deciso, ma anche morbido e flessuoso, in cui  l'estetica della scrittura araba si presta a seguire una narrazione non lineare, esplorazione profonda degli stati d'animo dei suoi protagonisti. Con simbologia potente, Habibi mette in scena deserto e baraccopoli, sultani e odalische, leggende e testi sacri, oppio e testi sacri.



Habibi è una storia che ha fatto di me ciò che voleva, attraversandomi nei luoghi dell'anima ancora inesplorati, straziandomi il cuore per prendervi posto.



Habibi è la storia di un ricominciamento di struggente bellezza, la storia di chi, per ritrovarsi, accetta di perdersi.



Sospesa in un “non luogo” e in un “non tempo” ammantati di fascino, tra antichità e contemporaneità, tra realtà e mito, religione e quotidianità, in cui convivono racconti di matrice cristiana e islamica, Habibi narra di Dodola dapprima sposa bambina, poi adolescente costretta a soddisfare il desiderio maschile come unica possibilità di sopravvivenza, infine prigioniera di un harem piegata alle voglie di un sultano infantile e capriccioso. Di nove anni più vecchia di Zam, Dodola lo cresce, trovatello, in una barca abbandonata in mezzo al deserto, dove un tempo scorreva un fiume poi prosciugato, nutrendolo di dedizione completa e di storie affascinanti di tradizione millenaria. Dodola e Zam, due giovani vite destinate alla oppressione ed alla marginalità, conosceranno un sentimento d'amore che dalla dimensione filiale trascenderà quella carnale per diventare comprensivo e totalizzante, oltre la somma di quanto vissuto individualmente.

5 cose che mi porto via
 

#1

Il travaglio interiore di tutte le Dodola sparse nel mondo, gravide di figli che le inchiodano alla memoria di un abuso sessuale, che le rendono goffe e pesanti in un corpo che è stato loro espropriato da creature avide di vita. Condannate ad adeguarsi all'idea di una maternità edulcorata, concepita come qualcosa di sempre desiderabile per una donna.

#2

Il contrasto tra genitorialità naturale e adottiva con il prevalere coraggioso della seconda sulla prima, esperienza stupefacente in contesti sociali dove a prevalere è sempre il legame di sangue su quello autenticamente d'amore.

#3

Il dramma delle spose bambine e delle giovani donne abbandonate sui cigli delle strade al desiderio di una umanità imbruttita.

#4

I profondi squilibri sociali ed economici che attraversano i paesi in via di sviluppo, la distribuzione ingiusta e ingiustificata delle ricchezze tra i primi e i terzi mondi, l'inquinamento e l'acqua come simbolo di vita, di fertilità e di sessualità.

#5

I fili di un arazzo che intrecciano poesia e religione, pagine coraniche accuratamente scelte tra quelle di matrice comune all'ebraismo e al cristianesimo. In una parola, un racconto epico che dell'amore fraterno, materno, carnale, assoluto, celebra l'essenza attraverso un tratto che si fa simbolo, per farsi figura, e poi tornare a farsi parola.

Un generoso regalo.