Nel 1965 i Beatles, pur essendo all’apice della loro notorietà (mediatica diremmo oggi), vivevano una fase potenzialmente molto critica: ognuno di loro sentiva crescere dentro di sé il desiderio di una svolta che assecondasse la propria personale inclinazione e ambizione artistica. Se a questo si aggiunge che gli impegni live si erano fatti troppo fitti e che durante questi eventi la cura che mettevano nella qualità musicale veniva letteralmente sopraffatta dall’entusiasmo chiassoso e delirante dei fan, si capisce bene come la loro frustrazione individuale (e quella del collettivo) per non riuscire a esprimersi artisticamente come avrebbero voluto fosse al culmine. Praticamente una bomba ad orologeria.

Decisero di prendersi una breve tregua dai concerti e si rinchiusero nello studio di registrazione. Ne scaturì Revolver, album da molti considerato una autentica pietra miliare nella storia della musica. Come disse il tecnico di studio Geoff Emerick, che giocò una parte rilevante nelle sonorità dell'album, «dal giorno in cui uscì, Revolver cambiò per tutti il modo in cui si facevano i dischi […]. Nessuno aveva mai udito niente di simile.»

Revolver (e non parliamo dell’arma da fuoco evidentemente!) viene direttamente dal latino revolvere ossia rivoltare, ritornare. Apparentemente le due possibili traduzioni hanno poco a che vedere tra di loro. E invece per i Beatles quella fu una autentica rivolta e al contempo un sentito e da tempo auspicato ritorno alle origini.

Avevano voglia di protestare contro quel sistema “mediatico” che li stava inaridendo dal punto di vista artistico e che non concedeva loro respiro sufficiente per creare, artisticamente parlando.

Sentivano la necessità di sovvertire lo stato delle cose, dedicarsi a quelle personali e intime inclinazioni musicali che da tempo maturavano. E la produzione di quell’album rappresentò il collante che tenne assieme questi diversi moti creativi che avrebbero altrimenti potuto rappresenta una perfetta tempesta centrifuga per la band.
Volevano in fondo tornare alle loro origini di formidabili musicisti, stanchi come erano di dovere vestire i panni di veri e propri fenomeni da baraccone pagati per dare vita, sul palco, allo show atteso dai loro fan deliranti.

Questi loro tre desideri rappresentano anche le tre accezioni di una singola, meravigliosa parola: rivoluzione.
Parlarne fin dal principio ci avrebbe portato fuori strada. Il fenomeno della rivoluzione suscita istantaneamente un complesso sistema di riferimenti storici, politici e sociali che rischiano di allontanare questa dimensione delle nostre vite quotidiane. E invece è tutto molto più vicino e alla nostra portata.

Al di là dell’oceano Kamala Harris è divenuta l’incarnazione perfetta di un principio di rivoluzione: si oppone alle discriminazioni, dichiara apertamente di volere battersi per sovvertire lo status quo ancora fortemente caratterizzato da fenomeni dilaganti di esclusione e marginalità e vorrebbe ripristinare quella condizione originaria universalmente sancita in virtù della quale “tutti gli uomini sono stati creati uguali”. E nelle prime battute del suo speech di esordio come neo eletta vice presidente degli USA cita John Lewis: “la democrazia non è uno stato, è un atto”.

Ecco, questa è l’idea di rivoluzione che ci piace, una rivoluzione fattuale di cui essere protagonisti, nel nostro piccolo, attraverso i piccoli gesti di rivolta, sovversione e ritorno alla nostra autenticità, qualunque cosa significhi per ognuno di noi.